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I Limiti del Governo nel “Jawboning”

La Corte Suprema interpreta i confini tra comunicazione costruttiva e coercizione governativa verso i social.

La Corte Suprema degli Stati Uniti è stata recentemente chiamata a definire i confini tra consiglio e coercizione da parte del governo nei confronti delle piattaforme social nel caso “Murthy v. Missouri”. Si è trattato di una controversia nata dall’accusa di alcuni stati e individui statunitensi che vedevano nella coordinazione governativa con i social media — in particolare sulle questioni della disinformazione riguardo ai vaccini e frodi elettorali — un’azione che si traduceva in una violazione del Primo Emendamento.

I giudici hanno interrogato su quando la comunicazione tra il governo federale e le aziende diventi effettivamente coercizione. La Corte ha dovuto indagare se esistano situazioni in cui il governo non possa comunicare con le terze parti senza oltrepassare i confini costituzionali.

Se da un lato, lo scambio di informazioni tra funzionari governativi e piattaforme social è un’abitudine consolidata, spesso volto a sollevare problemi relativi a informazioni erronee diffuse online, dall’altro la questione si complica quando questa comunicazione include consigli espliciti di rimozione o blocco di contenuti.

Il Vice Sollecitatore Generale degli Stati Uniti, Brian Fletcher, ha sostenuto l’idea che vi sia una “distinzione fondamentale tra persuasione e coercizione”, affermando che il governo è abilitato a parlare per se stesso, informando o criticando, ma non può fare uso di minacce coercitive per sopprimere la libertà d’espressione.

I giudici della Corte Suprema non hanno mancato di mostrare un certo scetticismo. Giustizia Elena Kagan, ad esempio, ha interrogato sui rischi di un eccessivo allargamento dell’interpretazione dei comportamenti del governo, che potrebbe arrivare a includere forme di comunicazione tutt’altro che rare tra enti governativi e terze parti.

Alcuni membri della Corte hanno fatto notare anche come il continuo “battibecchiare” con le compagnie di social media possa trasformarsi in una pressione tale da rendere quest’ultime subalterne allo stato, ponendosi perciò contro tale prassi.

La controversia è di portata storica, soprattutto alla luce degli anni recenti, dove il governo ha ampliato gli sforzi di condivisione di informazioni con le aziende tecnologiche, non solo per fini di salute pubblica, ma anche per questioni di sicurezza nazionale.

Nonostante l’apparente consenso generale dei giudici sulla mancanza di fondamento dell’argomentazione dei querelanti, resta incerto se la Corte si muoverà verso la conservazione delle attuali abilità del governo di segnalare ai social discorsi problematici.

Questo dibattimento apre un vivace dibattito sul rapporto in evoluzione tra governo e piattaforme online e sulla capacità del primo di limitare la diffusione di false informazioni. L’aspetto più cruciale rimane se il governo possa o meno influenzare, direttamente o indirettamente, la gestione dei contenuti online senza violare i diritti costituzionali di libertà d’espressione.

Lo stallo creato dal caso “Murthy v. Missouri” fornisce quindi un momento di riflessione fondamentale, non solo sul potere del governo di influenzare le politiche informative delle piattaforme digitali, ma anche sulla nostra comprensione della libertà d’espressione nell’era dell’informazione digitale.